Beppe Saronni, in un’intervista sul «Corriere della Sera», risponde al rivale di sempre, Francesco Moser. A trentacinque anni dalla loro sfida finale (la cronometro Firenze-Pistoia del 24 ottobre 1987), Beppe non le manda a dire.
Saronni, più giovane di sei anni rispetto a Moser, giunge nel professionismo quando Francesco era già un Dio. Tuttavia Beppe, ha cominciato a batterlo presto. In più nei vari confronti televisivi, Saronni aveva una buona dizione linguistica.
E sul confronto tra uno “zappatore trentino” cresciuto con dieci fratelli, ed un “borghese di Milano”, così risponde Beppe. «In gioventù, ho vissuto a Buscate, nella campagna lombarda. Babbo Romano era autista di bus. Mamma Giuseppina faceva la casalinga: eravamo quattro fratelli. Si tirava a campare con un solo stipendio – prosegue Saronni -. Pedalavo e lavoravo. Tre allenamenti a settimana, tre giorni di lavoro in fabbrica. Alla Olivetti, aggiustavo macchine da scrivere, montavo e smontavo le calcolatrici Logos, da cui si svilupparono i primi computer».
Il nonno materno di Beppe era Tito Brambilla, gregario di Libero Ferrario, il primo italiano a diventare campione del Mondo nel 1923 a Zurigo. Ai tempi correvano gli eroici Binda e Guerra. Tito, classe 1897, gareggiava da indipendente. Il suo lavoro di gregario era pagato a gettone. Babbo Romano invece, ha corso come ciclista dilettante. Mamma Giuseppina giocava a basket, in serie A, nella Bernocchi Legnano, una delle prime squadre femminili italiane.
Da ragazzino Saronni ha vinto quasi 150 corse, tra pista, strada e cross. A casa riportava oggetti utili come, tubolari, pantaloncini di lana o caschetti di cuoio. Il suo talento, spicca grazie all’oro conquistato agli Europei di velocità e alle Olimpiadi di Montreal. A 19 anni, nel 1977, approda direttamente tra i pro. Cosa assai rara in quegli anni.
Il quel periodo il ciclismo era, più autentico. Gli industriali italiani investivano milioni di lire su squadre e corridori. Vedi i Del Tongo dei mobili, il Teofilo Sanson dei gelati. I Bagnoli della Sammontana, i Fornari della Scic Cucine, Belloni della Termozeta e Rancilio delle macchine da caffè. Erano imprenditori con in cuore la vera passione per il ciclismo. Entusiasti, competenti e persino presenti alle corse. Oggi i team, sono proprietà dei fondi d’investimento.
I costi sono aumentati. Non esistono più i piccoli industriali appassionati di questo sport. Si è arrivati ai gruppi assicurativi e automobilistici. A ciò si aggiungono gli Stati sovrani, quali Bahrain ed Emirati Arabi. Per allestire un team Pro Tour, servono almeno trenta milioni di euro a stagione.
Riguardo la frase pronunciata da Moser, «Saronni ha avuto tre o quattro anni forti, troppi per il suo fisico. Ecco perché d’un tratto ha smesso. Io nel 1984 a Città del Messico feci il Record dell’Ora e vinsi Milano-Sanremo e Giro d’Italia». Con queste parole gli replica Saronni: «A dire il vero io ho vinto venti corse l’anno per sei stagioni di fila, non tre o quattro. E poi preferirei non parlare della famosa seconda giovinezza di Moser – afferma – . Quando a fine carriera Francesco è stato il primo e, in quel momento, l’unico, a far ricorso ad una certa scienza. Vedi la bici con cui ha battuto il Record dell’Ora, era un siluro vietato pochi anni dopo perché dava vantaggi enormi ».
Inoltre Saronni, lascia intendere alcune pratiche mediche, come la trasfusione di sangue, che oggi sono doping, ma all’epoca erano consentite. «Moser ha sfruttato certe metodologie, che il famoso professor Conconi offriva solo a lui: io e gli altri i suoi vantaggi li abbiamo subiti. Nel 1983, quando vinsi il Giro, mi disse che si era fatto vecchio e si sarebbe ritirato. Poi ha accettato il progetto del Record con innovazioni che non si sono rivelate sempre positive. Perché – dichiara – sulla base di quelle innovazioni, il ciclismo negli anni successivi ha avuto svariati problemi. Lui però, non aveva nulla da perdere e le ha sfruttate quando erano legali».
Alla domanda, se potendo lei Saronni avrebbe fatto le trasfusioni? La risposta è implacabile: «A posteriori non saprei. Oggi dico no. Allora forse avrei detto di sì. Resta comunque il fatto che lui era l’unico a usufruirne. Moser aveva il monopolio, è stato un po’ una cavia. Anche se mi sono ritirato a 32 anni, ho vinto due Giri d’Italia, nel 1979 e 1983, un Mondiale e una Sanremo. Un Giro di Lombardia e altre 120 corse. I due Giri poi, li ho vinti con le mie forze. Moser, ha conquistato il Giro d’Italia nel 1984, disegnato apposta per lui. Tra l’altro, decisero di cancellare la tappa dello Stelvio per presunto maltempo. Superò poi Fignon nella cronometro finale, grazie a una bici munita di ruote lenticolari. Cerchi che all’epoca nessuno poteva permettersi. Queste cose bisogna dirle».
Una frecciata Saronni, la tira anche contro i tifosi moseriani. «In salita organizzavano catene umane per spingerlo quando arrancava. La notte invece, si mettevano a fare schiamazzi sotto le camere d’albergo dove dormivo. A 40 anni di distanza, Moser ancora non vuole ammettere le molestie dei suoi tifosi e il modo scorretto in cui lo aiutavano. Ogni volta che cerco di farlo confessare, cambia discorso».
«Moser aveva un carattere impossibile anche con i suoi gregari. Ancora adesso sono troppo educati per raccontare le bastonate che prendevano, quando non si sfiancavano per lui. La gratitudine non è il suo forte. Francesco ha vinto il suo mondiale a San Cristobal, in Venezuela, nel 1977. In quel periodo ero passato professionista da poco. Decisi di sacrificarmi per lui. A chiedermelo fu il grande Alfredo Martini, ai tempi dirigente della nazionale. Pochi giorni dopo, al Giro del Lazio, eravamo in fuga io, lui e Felice Gimondi. Pensate mi abbia ricambiato il favore? No, pensò solo a vincere».
Tuttavia Saronni riconosce in Moser una forza di volontà e una caparbietà eccezionale. Ragione per cui “Lo Sceriffo” in carriera ha vinto tre Parigi-Roubaix. «Non gliele invidio – ammette Beppe -. La Roubaix non l’avrei mai vinta perché, il percorso non era adatto a me. I miei rimpianti sono diversi. Ad esempio non aver mai corso il Giro delle Fiandre, che avrei potuto vincere. Oppure aver trascurato il Tour de France dove potevo prendermi un bel po’ di tappe. All’epoca i nostri sponsor erano italiani e volevano che corressimo in Italia».
Ad oggi Beppe e Francesco si sentono in diverse occasioni. Alle cerimonie Saronni compra regolarmente il vino prodotto da Moser. Sulla situazione attuale del ciclismo azzurro, i due sono totalmente concordi. In particolare sul fatto che mancano gli sponsor e i campioni che ispirano i giovanissimi. D’accordi sul tema della sicurezza stradale, dove i genitori non mandano i propri figli in bici.
Un pensiero Saronni lo dedica alla Slovenia, il Paese da cui viene Pogacar. «Due milioni di abitanti e tanti fuoriclasse in diversi sport. Dal ciclismo allo sci, dal calcio al basket. In Slovenia c’è una cultura scolastica sull’educazione fisica che manca in Italia. I campioni non si costruiscono dal nulla, da noi siamo messi male a cominciare dalla scuola».
Se in futuro l’Italia del ciclismo potrà vedere un ritorno tra un nuovo Moser e Saronni, sarà dura. Ad ogni modo, una cosa è certa. Quelli sono stati anni meravigliosi: decine di migliaia di persone ad attendere a bordo strada per tifare l’uno o l’altro. Litigando tra loro, ma innamorati persi del ciclismo.
Moser, 71 anni, sessualmente è ancora arzillo. Vedi la nuova e più giovane compagna, dopo il divorzio. Saronni che ha 65 anni, vive con la stessa moglie da 45, si gode la pensione in Brianza e le cene tra vecchie glorie.
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Tra 1000 polemiche che ci sono state e ci saranno sempre dovute alla grande rivalità tra Beppe e Francesco , a mio avviso , quegli anni di grande ciclismo che ho vissuto e praticato fino ai dilettanti , posso solo dire grazie ad entrambi per i momenti indimenticabili che regalavano a tutti gli italiani , li avessimo oggi due rivali di grande classe come lo erano l’oro…