Fa bene Zlatan Ibrahimovic a sentirsi una divinità del calcio: questo Milan campione è anche una sua creatura. Da ieri Ibra è più che mai padrone dell’Olimpo rossonero, con file di tifosi in adorazione. «Non smetto finché non vinco con questo gruppo», aveva annunciato in tempi non sospetti. Ora che anche questo obiettivo è centrato, l’interrogativo si pone già nelle prossime ore.
Zlatan e la società si vedranno per definire il futuro. «Deciderò in questi giorni. Prima devo fare qualcosa per stare bene, se sarò in forma non sarà stata la mia ultima partita. Operarmi di nuovo al ginocchio? Vedremo. E’ vero, ho paura di smettere e devo farlo come voglio io». Non sarà mai una questione di soldi, ma di sentimenti e di rispetto: se Ibra sentirà di poter andare avanti, lo farà. Anche se i traguardi rossoneri sono ormai centrati e quelli con la Svezia, il mondiale in Qatar, già sfumati. Il contratto annuale avrebbe cifre riviste al ribasso: dai 7 milioni di compenso attuale, ai 2, euro più euro meno, del prossimo accordo. Se mai si farà.
Zlatan ha spinto la squadra in Paradiso, una volta liberata dal peccato che l’affliggeva: un gruppo che credeva troppo poco in se stesso, senza mentalità vincente, troppo leggero per resistere al peso delle responsabilità. Sono i comandamenti che hanno contraddistinto la vita e la storia sportiva di Ibra: non solo classe e talento, ma impegno, sacrificio, applicazione maniacale. Una carriera costruita sui numeri e sulla fatica: il fisico statuario segnato dal lavoro, la precisione del centravanti affinata negli allenamenti della settimana. I compagni hanno seguito il profeta: un passo dopo l’altro fino alla vetta della Serie A.
Il cammino era iniziato nel gennaio 2020, dopo che il Diavolo era piombato all’inferno: non c’era stato bisogno di pregare Zlatan, in cerca della sua ultima grande sfida dopo l’esilio a Los Angeles. O, per come la racconta lui, aver illuminato anche l’America del calcio. Era stato Mino Raiola a suggerirgli il ritorno rossonero, e ora Ibra ricambia dedicandogli la vittoria: «Mi voleva qui, diceva che ero l’unico che poteva salvarli. Il mio pensiero va a lui: questa è la mia soddisfazione più grande». Nella passerella finale è stato il più acclamato: si è diretto verso la coppa (a cui ha stampato un bacio) con champagne e sigaro in bocca. E braccia larghe, come dopo un gol.
Ibrahimovic ha accompagnato la squadra con il fisico, e i gol, o semplicemente con lo spirito. Sono dieci le reti in A in 18 partite negli ultimi sei mesi del 2020, 15 in 19 gare nella stagione successiva. Otto in ventitré uscite di questo campionato. Gli infortuni, tra ginocchio e tendine d’Achille, ne hanno compromesso il rendimento sul campo, non fuori: dalla palestra di Milanello o dal palco dietro le panchine di San Siro ha sempre professato il suo credo.
Ed è stato seguito. «Ibrahimovic è come un leone in gabbia» lo aveva descritto Pioli settimane fa. Un leone ferito ma sempre affamato. Ha spinto i suoi ad azzannare lo scudetto, quello che Zlatan, preventivamente, aveva definito il più bello tra gli undici titoli nazionali della carriera. Il più desiderato perché inatteso. Perché ottenuto da leader riconosciuto del gruppo. Non stella tra le stelle, ma la cometa che indica la strada. Zlatan si è definito il padre di venticinque figli rossoneri, i suoi giovani compagni di squadra.
Fisico acciaccato ma nervi d’acciaio: il futuro si gioca qui. Un futuro da cui Ibra ha confessato di essere spaventato: l’idea di una vita non più scandita dai ritmi del campo è l’unica avversaria che lo intimorisce.
Dunque, se il fisico lo sosterrà, Ibra andrà avanti. Altrimenti chiuderà qui il secondo capitolo della sua storia rossonera. Nel primo, tra il 2010 e il 2012, aveva aggiunto un altro titolo e una Supercoppa Italiana. Al suo ritorno ha festeggiato uno scudetto e i suoi primi quarant’anni: resta solo da capire dove sarà il prossimo tre ottobre, giorno del suo compleanno.
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