A prevedere la prima vittoria di un atleta africano in una classica di ciclismo, vedi quella di Biniam Girmay alla Gand-Wevelgem, è stato Luc Van Loon. Professore del Dipartimento di Scienze del Movimento dell’Università di Maastricht. Il docente universitario, grazie ad un intermediario ruandese, riuscì a portare in Olanda alcuni corridori africani per sottoporli a dei test.
Venne fuori che i loro valori fisiologici erano uguali o migliori dei coetanei europei. “Diamogli tempo – scrisse Van Loon – forniamo loro buone bici, bravi coach e giuste motivazioni. Vedrete che come nella maratona, dove 90 dei 100 top runner sono africani, anche nel ciclismo ci sarà una rivoluzione sub sahariana”.
In Africa, i ragazzi iniziano a correre in bici da juniores, pertanto molti meccanismi li sviluppano dopo, come ad esempio stare in gruppo. Vero che si tratta di atleti dotati di grande resistenza fisica, ma per competere in bici serve soprattutto molta tattica. E questo per loro rappresenta un punto debole. Non a caso, nelle gare ciclistiche i corridori africani si trovano spesso in coda al gruppo o al vento.
Il ciclismo made in Africa, inizia ad emergere nel 2015 con Daniel Teklehaimanot, primo atleta a vincere la maglia a pois al Giro del Delfinato e ad indossare la medesima maglia al Tour de France, al termine della sesta tappa.
E se la maglia a pois di Daniel Teklehaimanot al Tour 2015 ha rotto simbolicamente una barriera, il successo di Girmay in una Classica di primavera, dove bellezza e difficoltà del ciclismo la fanno da padrone, certamente la storia cambia. Ad oggi l’Eritrea dispone di 10 professionisti giovani e di buon livello. Nel periodo delle gare fanno base in Italia, mentre d’inverno si allenano a casa loro, sfruttando così i vantaggi dell’altitudine.
L’altra nazione in rampa di lancio è il Ruanda, che ha appena ottenuto l’assegnazione dei Mondiali del 2025: un progetto inimmaginabile fino a poco tempo fa. Il Tour del Ruanda inoltre, ha un pubblico da far invidia persino a quello di Francia. Durante la manifestazione, le città attraversate si paralizzano e gli atleti pedalano tra due muri di folla.
Nel frattempo l’UCI, sta provando a seminare il ciclismo pure in Kenia ed Etiopia, nazioni leader nelle corse di resistenza. La ricetta però è sempre uguale: fornire bici (non importa se vecchiotte, basta siano robuste) formare o spedire sul posto coach e meccanici. L’obiettivo essenziale alla fine, è avviare il movimento.
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