Gino Bartali, il ciclista della guerra

Correva l’anno 1914, quando il 18 luglio, pochi giorni dallo scoppio della prima guerra mondiale, in un piccolo centro toscano di Ponte a Ema, tra Firenze e Bagno a Ripoli, nasce Gino Bartali. La sua è una famiglia contadina: il padre Torello, accendeva i lampioni a gas mentre la madre Giulia, lavorava la rafia.

A casa i soldi erano pochi e Gino, appena tredicenne, inizia a lavorare nell’officina di biciclette di Oscar Casamonti, per 10 lire la settimana. 

Eravamo poveri e ci volevamo bene. I primi soldini per comprarmi la bicicletta, li ho guadagnati che ancora portavo la cartella a tracolla, scegliendo con pazienza da grandi mucchi i fili di rafia di diverso colore, che per quattro danari, consegnavo agli artigiani della paglia. Se Anita e Natalina (le sorelle) non avessero levato dal gruzzoletto della dote il denaro che mancava, e mio padre non avesse completato il resto, alla bicicletta e alle corse non sarei mai giunto”. 

Inizia così, quasi per caso, una carriera durata un ventennio e una passione lunga una vita. L’esordio tra i professionisti avviene nel 1935, quando presentatosi da “indipendente”, si troverà a guidare la Milano-Sanremo, davanti a Learco Guerra. Arriverà settimo, per via di un guasto alla bici e dell’intromissione dell’allora direttore della Gazzetta, Emilio Colombo.

Bartali, riesce tuttavia ad attirare le attenzioni delle maggiori squadre dell’epoca. Poco dopo firma per la Frejus, e al suo primo Giro d’Italia conclude al settimo posto. L’anno seguente passa alla Legnano, dove trova Learco Guerra: l’ex rivale accetterà poi di fargli da gregario. Alla seconda partecipazione del Giro, Bartali si aggiudica la Maglia Rosa. Ma il destino ci mette del suo e la tragedia è dietro l’angolo.  

Durante una corsa muore il fratello Giulio: aveva solo 20 anni. Devastato dal dolore Gino pensa di chiudere col ciclismo. Il richiamo dei pedali però, è troppo forte e la sfida di dimostrare al padre che “anche quello del ciclista può essere un vero lavoro“, lo riporta in sella.

Al suo rientro, Gino Bartali è ormai l’indiscusso numero 1 del ciclismo italiano. Nel 1937 bisserà il successo al Giro d’Italia ma, al Tour de France, dovrà ritirarsi per via di una rovinosa caduta che ne riacutizzerà la broncopolmonite di pochi mesi prima. L’anno successivo, riceverà il perentorio ordine da parte del regime fascista, di saltare il Giro d’Italia per preparare al meglio quello di Francia. 

E dopo il trionfo d’oltralpe, Gino riuscirà ad attirarsi le inimicizie del regime. Il motivo? la dedica delle sue vittorie alla Vergine Maria, al posto del Duce. Ad ogni modo, i suoi successi proseguono e nel 1940, Bartali sceglie come gregario al Giro d’Italia, un giovane di belle speranze: Fausto Coppi. La gara parte come da pronostici e Gino si piazza subito in testa. Ma durante una tappa, il toscano cade e si infortuna. La squadra decide perciò di puntare sul nuovo arrivato. Sbuffante come di consueto, “Ginettaccio” accetta, fornendo un aiuto decisivo al ciclista piemontese.

Nasce così uno degli episodi più belli dello sport italiano. In cima alle Alpi, Bartali si trova al comando, davanti allo stesso Coppi che, alle prese coi crampi, sta pensando al ritiro. In preda al furore agonistico, il toscano torna indietro, getta Coppi nella neve per rinfrescarlo e, a suon di insulti, riesce a farlo montare nuovamente in sella gridandogli il famoso: “Coppi, sei un acquaiolo! Ricordatelo! Solo un acquaiolo!”. Fu Coppi, alla fine, a vincere il Giro d’Italia. È l’inizio della rivalità che spaccherà in due l’Italia del secondo dopoguerra. 

L’avvento della seconda guerra mondiale poi, mise fine alle competizioni sportive per cinque anni, assestando un duro colpo alla carriera di entrambi i ciclisti. In particolare a quella di un Bartali, all’epoca già in età matura. Coppi finisce in Africa, prigioniero degli inglesi, mentre Gino che aveva sempre ricusato il credo fascista, si trova costretto ad indossare la divisa della Guardia Nazionale Repubblicana. 

L’autunno del ’43 è stato uno dei momenti più terribili della guerra 

Bartali cominciò a trasportare documenti falsi: erano infilati sotto al tubo del regisella, nascosti dentro il telaio della bici. All’inizio partiva da Genova, dove prendeva i soldi provenienti da un’organizzazione per la salvezza del popolo ebraico. Sulla strada del ritorno si fermava spesso alla Certosa di Lucca, da padre Costa, che nascondeva tante persone. Finché qualcuno non fece la spia. Arrivarono i nazisti, fucilarono tutti. Gino rimase colpito e non ci tornò più, nemmeno dopo la guerra.

Infine Bartali cambiò percorso: da Assisi, dove c’era una stamperia clandestina, alla Curia di Firenze. Da lì il Vescovo distribuiva i documenti falsi agli ebrei per farli espatriare. Gino percorreva 185 chilometri avanti e indietro in un solo giorno: se fosse stato scoperto sarebbe andato incontro alla fucilazione. Andata e ritorno nella stessa giornata, con più di 340 chilometri nelle gambe. 

Nell’autunno del ’43 Bartali venne arrestato dalla polizia fascista e, per sua fortuna, nessuno ispezionò la bicicletta: grazie a questa “dimenticanza” il campione si salvò. A Firenze infatti, c’era il temuto comandante Mario Carità, persona crudele e spietata. 

Giusto tra le nazioni 

Quelle eroiche gesta, convinsero lo Yad Vashem (l’Ente nazionale per la Shoah di Gerusalemme), a dichiarare Bartali “Giusto tra le nazioni”: il riconoscimento per i non ebrei che hanno rischiato la vita, salvando quella anche di un solo giudeo, durante le persecuzioni naziste.

Ancor più che un grande campione di ciclismo, Gino Bartali fu un eroe, un giusto e soprattutto un uomo che non amava far sapere le sue gesta. Per molto tempo non raccontò a nessuno degli oltre 800 ebrei salvati dalla morte durante la guerra, perché secondo lui “il bene si fa ma non si dice”. E la confidenza al figlio Andrea con la raccomandazione di non raccontare nulla se non a tempo debito. 

La guerra civile scongiurata 

Cosa sarebbe successo se Bartali non avesse vinto il Tour de France del 1948. Perché le tensioni nel nostro Paese, dovute all’attentato a Togliatti avvenuto il 14 luglio di quell’anno, forse non si sarebbero placate facilmente e, nel peggiore dei casi, l’Italia sarebbe potuta andare incontro a una guerra civile. Il segretario del Partito Comunista Palmiro Togliatti, a cui furono sparati alcuni colpi di pistola da un fanatico anticomunista (Antonio Pallante), sopravvisse, ma in tutto il Paese in poche ore iniziarono violente proteste, sfociate in tumulti e scontri di piazza con la polizia, in cui si registrarono morti e centinaia di feriti. 

In questo clima di tensione giunse, il 15 luglio, la vittoria di Gino Bartali durante una tappa fondamentale del Tour de France, evento che contribuì, secondo alcuni in maniera decisiva, a rasserenare gli animi coalizzando amici e nemici attorno all’impresa sportiva che ridava lustro a un’Italia mal vista dai francesi per il suo ruolo durante la guerra. A riportare la situazione alla normalità nel Paese aiutarono inoltre, nei giorni seguenti, i ripetuti inviti alla calma dello stesso Togliatti – oltre che una serie di nuove imprese di Bartali, prima del trionfo finale del 25 luglio.

Rivali sì, ma anche amici 

Il 15 giugno 1946, il Giro riprende. A contendersi la Maglia Rosa ci sono sempre loro: Coppi e Bartali. Protagonisti di una rivalità ancora accesa. E se Coppi dopo la Guerra, pareva lanciato verso altri successi, fu Gino Bartali, dato da molti per “finito”, a ruggire ancora. Il vecchio leone toscano, piazzò una doppia zampata vincente: nel 1946 col successo al Giro d’Italia e nel ’47 alla Milano-Sanremo. 

Quella tra Bartali e Coppi fu una rivalità sana e che porta in alto lo spirito sportivo. Il comunista e il democristiano. Nel cuore dei tifosi c’è, però, un’immagine che rimane indelebile: quella della foto scattata durante una tappa del Tour del 1952. Il momento dello scambio della borraccia con l’amico-nemico di sempre: Fausto Coppi. Lo stesso che, il 17 luglio del 1949, lasciò vincere Ginettaccio a una tappa del Tour de France al grido di: “Tanti auguri, Vecchiaccio!”. 

Gino Bartali, è una delle leggende del ciclismo e dello sport italiano. Nato a Ponte a Ema il 18/7/1914, muore a Firenze il 5/5/2000. In vent’anni di carriera da pro’ (1934-1954), vanta tre Giri d’Italia (1936, 1937, 1946) due Tour de France (1938, 1948), quattro Milano-Sanremo, tre Giri di Lombardia.

 

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